Non si sconfigge l'uomo più potente e pericoloso del mondo chiudendo un account X
The great X-scape: l'Aventino digitale al tempo di Musk
Ciao, questo è il primo numero di una futura newsletter: “Polemichette online”.
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Musk è il Nemico
Per chi si batte contro disuguaglianze, sfruttamento del lavoro e del pianeta, suprematismo bianco, machismo e sopraffazione, per chi spera in un mondo più giusto e si impegna per cambiarlo, Elon Musk è senza dubbio il nemico per eccellenza. Il super miliardario nato in Sudafrica non ha, infatti, solo le sembianze del super villain di un film distopico, è davvero il cattivo da sconfiggere.
Anzitutto quando parliamo di Musk dobbiamo ricordare che una persona che guadagna 1800 € al mese dovrebbe lavorare per circa 13 milioni di anni per raggiungere i 318 miliardi di dollari del patrimonio di Musk.
Questa data visualization rende molto bene l’idea dell’enormità immorale di questa enorme concentrazione di ricchezze.
Non lo ribadisco solo per alimentare odio di classe o indignazione, ma perché se abbiamo l’ambizione di contrastare l’uomo più ricco e forse più potente del mondo, dobbiamo basare la nostra strategia sulla lettura dei rapporti di forza.
Viviamo in un capitalismo senza attrito e contrappesi. Quando in questo sistema, una persona così ricca, che controlla fondamentali infrastrutture strategiche, si radicalizza diventando un fascista eversivo, la situazione è davvero grave, soprattutto perché Musk sa di poter usare questo ruolo per imporre la sua idea di società.
Musk detiene, infatti, un potere che dopo il voto statunitense — con buona pace di Mattarella e dei suoi richiami — non appare contenibile nei paletti della labile legalità nazionale e in quel che rimane (?) di quella internazionale. E sarà sempre più forte.
Secondo il Bloomberg Billionaires Index solo nelle 24 ore successive alla vittoria di Trump gli uomini più ricchi del mondo si sono arricchiti enormemente grazie al rimbalzo della borsa statunitense.
Elon Musk: 290 miliardi (+26,5 miliardi)
Jeff Bezos: 228 miliardi (+7,14 miliardi)
Mark Zuckerberg: 202 miliardi (-80,9 milioni)
Larry Ellison: 193 miliardi (+9,88 miliardi)
Bernard Arnault: 173 miliardi (-2,85 miliardi)
Bill Gates: 159 miliardi (+1,82 miliardi)
Larry Page: 158 miliardi (+5,53 miliardi)
Sergey Brin: 149 miliardi (+5,17 miliardi)
Warren Buffett: 148 miliardi (+7,58 miliardi)
Steve Ballmer: 146 miliardi (+2,81 miliardi)
Musk guida anche questa classifica: il suo patrimonio netto è aumentato di 26,5 miliardi di dollari in 24 ore, più della metà di quanto aveva speso per acquistare Twitter.
Quella acquisizione fu definita da tutti gli osservatori “una follia”, “un investimento a perdere”, il gesto folle di un personaggio che “ha perso il tocco magico”.
Oggi possiamo dire che per Musk è stato un costo più elevato comprare Twitter (44 miliardi) che comprare gli U.S.A. (130 milioni di finanziamento alla campagna elettorale di Trump), per quanto una acquisizione è stata funzionale alla successiva.
The great x-scape: account disattivati e fuga da Musk
In queste settimane tante persone, organizzazioni, brand, testate giornalistiche autorevoli come il Guardian hanno abbandonato X.
Negli USA, dove ci sono circa 65 milioni di utenti X, nei giorni dopo il voto oltre 100mila persone hanno chiuso i propri account. Si tratta di una reazione emozionale, frutto di una ragionevole e importante ondata di indignazione.
Siamo sicurə che come strategia abbandonare una piattaforma sia la scelta giusta? Dipende da molti fattori, proviamo a analizzare il quadro complessivo di quella che è stata chiamata the great X-scape o the great X-odus.
Assisitiamo sostanzialmente a tre tipologie di scelte.
coerenza: “X non mi/ci rispecchia sul piano valoriale”
boicottaggio: “voglio danneggiare il CEO di X e la sua piattaforma”
insofferenza: “X è diventata una fogna, non voglio dialogare con razzisti e omofobi”
Dal punto di vista della coerenza individuale non ho nulla da dire. È una decisione di cui comprendo il profilo etico e capisco possa anche pagare dal punto di vista di posizionamento con la propria community progressista e antifascista che si sentirà galvanizzata dalla scelta di radicale rottura da parte di divulgatori, attivisti, influencer o brand.
In quei centomila che hanno lasciato X dopo le elezioni del 5 novembre c’è chi è mosso dall’insofferenza nei confronti delle orde di troll, suprematisti bianchi, incel e fascisti (cui in Italia si aggiungono insopportabili liberali di destra sempre più radicalizzati) che frequentano assiduamente X e si sentono padroni della piattaforma.
Chiudere l’account o lasciarlo inattivo è una scelta legittima, specialmente se compiuta da singole persone, magari triggerate dalla violenta propaganda anti-woke (termine presentabile con cui si veste l’omolesbobitransfobia, il razzismo e il peggior conservatorismo occidentale).
Non c’è nulla di male a voler sfuggire dalla violenza verbale dell’odio online ancor più sdoganata da Musk e rifugiarsi in altri lidi ritenuti più safe come Bluesky o Mastodon.
Ma se una reazione istintiva diviene una pratica di lotta ci tocca approfondire il tema e cercare di vagliarne l’efficacia.
In Italia, già prima del voto, ValigiaBlu ha scritto una riflessione molto puntuale in cui annunciava la propria scelta di abbandonare il proprio account (senza chiuderlo per non lasciare archivio pluriennale dei contenuti) e spostarsi su Bluesky.
ValigiaBlu, che proprio su Twitter aveva costruito una parte importante della propria storia editoriale e della propria community, contesta apertamente Musk e denuncia la trasformazione di X in una piattaforma strutturalmente orientata alla disinformazione e la manipolazione, strumento quindi incompatibile con la visione che la testata ha della società e del ruolo dell’informazione.
L’Aventino digitale
Una volta che ce ne saremo andati tuttə da X cosa avremo ottenuto?
La scelta di abbandonare X per coerenza con i propri valori non mi convince, specialmente se a ritirarsi sull’Aventino e abbandonare X sono organizzazioni politiche, attivistə e giornali
Attivare un account social non è come farsi la tessera di un partito, le piattaforme con cui abbiamo a che fare oggi non sono progetti politico valoriali cui si aderisce, l’algoritmo non è trasparente o collaborativo e no, non sono previste primarie per il CEO del social.
Le piattaforme sono luoghi e terreni di battaglia su cui miliardi di persone passano ogni giorno una porzione rilevante del loro tempo e su cui formano le proprie idee e opinioni.
Le piattaforme sono infrastrutture di comunicazione in mano al grande capitale globale orientate esclusivamente al profitto e al mantenimento dello status quo (ci tornerò dopo).
Apprezzo e supporto le molte iniziative per costruire dal basso spazi digitali safe per una discussione libera dalle logiche capitalistiche (segnalo Livello Segreto su Mastodon). Ma sono progetti che hanno una funzione diversa da quella di convincere chi è lontano dalle nostre posizioni, nell’ambito di una battaglia politico-culturale.
Se pensiamo che i canali social servano a promuovere le nostre idee ha senso ha rifugiarsi su spazi digitali in cui la pensiamo allo stesso modo?
Internet era una rete distribuita e orizzontale, uno spazio libero con rapporti di forza molto più omogenei. Le grandi corporation oligopoliste o monopoliste della Silicon Valley sono riuscite negli anni a divorare letteralmente la rete, piegandola all’estrazione di dati e profitto.
La prospettiva di un’ulteriore frammentazione dell’ei fu World Wide Web con piattaforme per i liberal e progressisti, piattaforme conservatrici e fasciste, piattaforme libere e orizzontali per compagnə, piattaforme per ogni passione e idea è una prospettiva concreta ma non è una buona notizia.
Scegliere di parlare ciascuno solo con i propri simili mi pare una resa spocchiosa e fallimentare che contribuirà alla radicalizzazione di milioni di persone oggi non politicizzate, il tutto a vantaggio di quella parte politica che oggi nel mondo ha indiscutibilmente una capacità di framing e egemonia maggiore: la destra estrema.
Fermo restando che non critico chi ha scelto di chiudere l’account e io per primo lo uso pochissimo da tempo mi chiedo: chi rimarrà a promuovere una visione del mondo o almeno a veicolare notizie attendibili su una app su cui si informa una fetta non irrilevante di cittadini statunitensi, asiatici, sudamericani e europei?
Come pensiamo di fermare il flusso di elettori che di anno in anno si sposta sempre più a destra, radicalizza le proprie convinzioni, e di conseguenza consente alla destra estrema di conquistare o consolidare ruoli di governo?
Non dobbiamo sopravvalutare X-Twitter ma dobbiamo ricordarci che — anche per la sua base utenti e struttura — contribuisce in modo significativo all’agenda setting globale. È utile questa resa? È un approccio che si estenderà a altre piattaforme?
Penso che la scelta di rinunciare a promuovere un’altra idea di società o abdicare dal diffondere una informazione di qualità su X, sarebbe una scelta utile-fattibile se ci fossero i margini per un boicotaggio efficace. Ma è fattibile?
Il boicottaggio di X può funzionare?
Per boicottare una corporation serve una strategia capace di impattare in un modo statisticamente rilevante (o almeno rilevabile) sulla reputazione e sul bilancio dell’azienda. Tutti elementi di cui Musk può tranquillamente non preoccuparsi.
Elon Musk non verserà una lacrima per gli addii di chi lo contesta. Perdere qualche milione di utenti o i grandi brand inserzionisti, a partire da quelli con un target e posizionamento più progressista non sarà un problema.
Non solo grazie al grande patrimonio o alla strafottenza del suo proprietario, ma perché alla luce della strategia e la traiettoria scelta dal suo CEO c’è ben poco da perdere.
Dal punto di vista della reputazione è lo stesso padrone di X che rivendica il profilo della piattaforma, i nostri attacchi (“è una fogna, sembra 4chan”) non lo scalfiscono, ma anzi confermano le sue scelte di posizionamento. X è Musk e Musk è X.
Solitamente le corporation proprietarie di quelle che un tempo chiamavamo “social network” hanno un business model incentrato esclusivamente sulla raccolta pubblicitaria.
Facebook, Instagram, TikTok… sono macchine progettate e disegnate con il solo obiettivo di tenerci più tempo possibile al loro interno per sottoporci con insistenza il maggior numero di contenuti pubblicitari, profilati nel modo più accurato possibile, incassando così miliardi di profitti.
Rubando tempo e dati alle nostre vite, Meta & Co. sono diventate tra le società con maggior capitalizzazione al mondo.
Se volessimo colpire Instagram la strategia cui stiamo assistendo questi giorni potrebbe funzionare.
Se, davanti a un analogo e ipotetico percorso politico di Zuckerberg (che non a caso non ha parlato in tutta la campagna elettorale evitando di schierarsi e di scontentare una parte) fossimo in grado di organizzare un’azione coordinata e realmente di massa per disattivare i nostri account o sospende a lungo la pubblicazione dei tanto preziosi contenuti che alimentano lo scroll infinito, potrebbe risultare efficace.
Anche una ipotetica campagna di brand shaming contro Meta in grado di mettere in imbarazzo e far cambiare scelte di investimento ai principali inserzionisti risulterebbe una pratica efficace capace di far cambiare linea politica a un ipotetico Zuckerberg muskizzato.
Ma con X le cose sono diverse. Tra un cinguettio e un hashtag non c’è mai stato molto spazio per l’adv. Twitter non ha mai raggiunto un livello di revenue dall’ADV rilevante e sufficiente a rendere solida economicamente la piattaforma.
Introiti da ADV | 2022 al momento dell’acquisizione di Musk
Twitter 4.73 miliardi di dollari
Meta 113,64 miliardi di dollari
Inoltre il contraccolpo lato inserzionisti c’è già stato. A partire dal settembre 2023, ben 46 dei primi 100 inserzionisti per volume di budget speso su X hanno completamente cessato la spesa pubblicitaria statunitense sulla piattaforma (Fonte Sensor Tower).
Un vero crollo invece non c’è stato tra gli utenti. Nonostante questa grande polarizzazione intorno alla piattaforma, e forse proprio grazie a questa, con il CEO che chiama costantemente i suoi a promuoverne l’utilizzo, X ha tenuto botta e, come si vede dai dati Similarweb, non c’è stato, negli USA e nel mondo, il contraccolpo su cui molti avevano scommesso.
Who’s the media?
Per 15 anni Twitter è stata la piattaforma del citizen journalism, dell’attivazione e della contro-informazione e talvolta dell’organizzazione dal basso. Gli hashtag sono stati strumenti per raccontare live o seguire e rilanciare con un’attenta content curation proteste in tutto il mondo, per accendere riflettori, coordinare parole d’ordine e costruire “reti di indignazione e speranza” per dirla con Castells.
Quando la notte della vittoria di Trump, Musk ha postato “You are the media now” probabilmente parlava di sé medesimo e indendeva “I am the media now”.
Come ha scritto Andrea Fabozzi su il manifesto Musk-come Trump-è “un padrone che dice al popolo: il padrone sei tu. Riuscendo a essere convincente” e sta dando ai suoi utenti la percezione di avere nelle mani molto più di uno smartphone.
Nei primi anni 2000 il payoff di Indymedia era “don’t hate the media, become the media”. Vederci espropriati anche di questo pezzo simbolico non è una bella sensazione, ma fotografa bene la realtà dei rapporti di forza e la direzione presa nell’ultimo ventennio dal vento della storia.
Come hanno osservato diversi analisti, la campagna elettorale statunitense appena terminata ha segnato più di altre una svolta: la TV non ha toccato palla. Trump ha quasi schivato i canali ufficiali affidandosi a podcaster, youtuber, streamer e ovviamente agli utenti di X e alla sua Truth.
I media mainstream non erano necessari, se non nella funzione di sparring partner contro cui picchiare duro, un fantoccio da sventolare nell’elenco infinito dei nemici, un simbolo di quell’establishment e di quel mondo vecchio che dice di voler abbattere.
Per i Repubblicani Maga giornali e TV sono stati un nemico facile da picchiare considerato che la forte polarizzazione del dibattito pubblico si è sommata alla crescente sfiducia nei media, frutto di overload informativo, clickbait, propaganda spudorata e conflitti d’interesse.
Un pezzo di questa crisi ha certamente origine proprio nella crisi dell’informazione tradizionale e negli effetti del mercato dell’attenzione sulla nostra capacità di approfondire contenuti e orientarci nella complessità.
La vittoria di Trump è il fallimento anzitutto di un modo di fare informazione. La propaganda illogica ma efficacissima di Trump avebbe funzionato così bene se non avessimo passato l’ultimo decennio a nascondere ogni contenuto superiore alle 500 battute dietro sempre più inviolabili paywall?
Escludere milioni di persone dall’accesso all’informazione non è stata una scelta vincente. Quanto crescerebbe il consenso per le nostre idee se applicassimo il metodo X-scape anche alle altre piattaforme-parte-del-problema e adottassimo la stessa modalità relazionale agli utenti di altri canali social che non la pensano come noi?
Ovviamente X-Twitter non è il centro del mondo e le scelte di disattivare gli account non saranno certo la causa principale dell’avanzata del fascismo globale.
Per essere sinceri bisogna dire anche che abbandonare X per un media che si basa su traffico e spazi pubblicitari e non su abbonamenti o sottoscrizioni, non è una rinuncia particolarmente pesante.
Twitter non è mai stato una fonte di traffico paragonabile alle altre, ma da quando Musk ha acquisito la piattaforma c’è stato un vero e proprio crollo:
BuzzFeed -70%
Reuters -67%
Washington Post -48%
CNN -41%
Fox News -39%
New York Times -35
The Guardian -29%
Fonte: digiday.com
Questo crollo si inserisce nel fenomeno generale della “fine del traffico” con “i social sempre meno traffic driver verso i siti esterni” come l’ha ben descritta Valerio Bassan nella sua newsletter Ellissi.
Se tutti i social sono sempre più spazi chiusi da cui è difficile far uscire l’utente, su X la situazione è peggiorata ulteriormente quando questa estate, per una scelta rivendicata esplicitamente da Musk era cambiata la modalità di visualizzazione degli articoli: nell’immagine di anteprima di ogni link il titolo non è più cliccabile, con conseguente crollo delle views generate.
Non è certo l’unico cambiamento avvenuto da quando Musk ha catturato e ucciso l’uccellino blu. La trasformazione è stata profondissima e radicale e i livelli di manipolazione dei contenuti sono stati molto profondi. Ad esempio ci sono diversi studi e inchieste che dimostrano che abbia modificato l’algoritmo per favorire l’engagement dei contenuti di Musk e dei Repubblicani.
![](https://substackcdn.com/image/fetch/w_1456,c_limit,f_auto,q_auto:good,fl_progressive:steep/https%3A%2F%2Fsubstack-post-media.s3.amazonaws.com%2Fpublic%2Fimages%2F6a6a077d-0f7a-4d59-834b-67c782370722_1600x943.png)
Musk sembra dire “è la mia piattaforma e si gioca alle mie regole”. Ma gli algoritmi delle altre piattaforme sono forse delle macchine trasparenti?
Se la Silicon Valley va sempre più a destra
Il vecchio slogan di Google “don’t be evil” suona sempre più beffardo. I monopolisti ultraliberisti della Silicon Valley sono stati tra i primi a fare le congratulazioni a Trump per la sua vittoria, ovviamente tutti su X tranne Zuckerberg sul suo Thread.
Cosa faremo se e quando una delle piattaforme al centro del nostro sistema di comunicazione e relazionale dovesse seguire un percorso analogo a quello di Twitter?
A inizio 2024 abbiamo avuto un segnale tanto rilevante, quanto sottovalutato. Mentre il mondo si stava addentrando in quello che è stato definito “l’anno elettorale più grande di sempre” con oltre 70 paesi andati al voto, Adam Mosseri (head of Instagram) ha annunciato una profonda restrizione dei contenuti politici sulle piattaforme Meta: per impostazione di default ogni account di Instagram e Thread ha visto sparire i contenuti ritenuti “politici” tra quelli raccomandati. Per ripristinarli serviva che un utente fosse sufficientemente attento da accorgersi di questo cambiamento e così determinato da trovare il modo di cambiare questa scelta di spoliticizzazione della piattaforma nascosta tra i meandri delle impostazioni Meta.
Cos’è un contenuto politico? Chi ha legittimato Mosseri e Zuckerberg a scegliere cosa è politica e cosa no su una piazza di 2 miliardi di persone? Che impatto ha sulla società e sulla qualità del dibattito pubblico e delle nostre democrazie malandate? Ne ho parlato diffusamente qui.
Censurare strutturalmente chi racconta cosa accade a Gaza, premiare l’engagement di reel di chi sfrutta i minori e la loro immagini e penalizzare contenuti sulla crisi climatica o bannare chi denuncia l’ascesa dei neonazisti in Germania o esprime sostegno alla causa curda, o semplicemente non bannare la miriade di contenuti che incitano all’odio e alla discriminazione è molto meno grave e così differente da quel che avviene su X?
Quello che cambia è certamente lo stile spudorato del miliardario nato in Sudafrica, ma se volessimo essere rigorosi dovremmo assumere anche per gli altri canali che usiamo un approccio quanto meno battagliero al nostro uso militante delle altre piattaforme.
Invece ci si continua a comportare come se fossero luoghi neutrali e neutri e le loro regole fossero un dato di natura. Niente di più falso.
E quindi che si fa?
Dalla direzione impressa a Twitter da Musk dovremmo aver imparato anzitutto una lezione che dovrebbe essere banale e tautologica: i social network non sono uno spazio pubblico, perché sono proprietà privata.
Meta, Google & Co. sono troppo grandi e rilevanti per le nostre malandate democrazie per poter accettare che siano e restino proprietà privata in mano agli uomini più ricchi e alle corporation più potenti del pianeta.
Lo dico da molti anni con insistenza e sono andato a ripescare questo articolo del 2017.
Grazie al supercattivo Musk abbiamo acceso i riflettori su un problema cruciale: le piattaforme ricevono la forma del loro proprietario e dei suoi interessi.
Il problema ovviamente non è nuovo e vale anche per i gruppi editoriali tradizionali, dal nostro Gruppo Gedi con FCA al Washington Post di Bezos, ma un editore, anche i più grandi, non sono il proprietario di un’infrastruttura di comunicazione globale capace di silenziare o manipolare in modo così efficace l’opinione pubblica.
Per molti anni abbiamo sentito la storiella dei social che cambiano la storia e ribaltano i governi (le rivoluzioni le fanno le persone organizzandosi, anche tramite i social ndr) e mentre il conflitto sociale nel mondo occidentale non è mai stato così sopito, continua a essere ben radicata l’illusione che i social sono portatori potenziali di rivoluzione dal basso.
Nella loro forma attuale di piattaforme di intrattenimento, i social sono invece più strumento di controrivoluzioni passive dall’alto nelle mani dei loro proprietari multimiliardari.
Nonostante ciò, se ci poniamo il tema di rompere le camere dell’eco, uscire dalle nicchie, fare agenda setting, mobilitare chi la pensa come noi, parlare a chi la pensa diversamente, convincere milioni di persone e diventare maggioranza, non possiamo certo pensare di abbandonare ogni piattaforma non alleata.
Il digitale è un terreno di battaglia, è insidioso perché è disegnato e costruito dal nemico, ha regole avverse al nostro gioco, ma al tempo della crisi delle grandi organizzazioni di massa e in questo quadro di rapporti di forza le piattaforme sono uno strumento e ci tocca usarlo al meglio.
Sempre che non si voglia restare per sempre minoranza, a scambiarci emoji e pacche sulla spalla virtuali in un piccolo gruppo Whatsapp mentre il mondo in cui viviamo è al collasso.
Sono Claudio Riccio, lavoro come creative strategist, insegno Etica della Comunicazione allo IED, vivo a Roma.
Puoi scrivermi una mail a ciao@claudioriccio.me.
sui social non si dialoga da un bel pezzo, quindi non capisco da dove sorga questo ottimismo, ingenuo, tale da ergerci a protagonisti del cambiamento su piattaforme il cui scopo, come da te detto, è quello del profitto basato sul caos algoritmico e sui meccanismi di reazione ai contenuti.
La riflessione sul tema è molto importante, e concordo che ritirarsi senza riflettere rischi di non essere utile alle cause.
Mi vengono due pensieri:
uno è provocatorio: se strategicamente decidessimo di rimanere su Twitter per mantenere posizioni diverse e una totale radicalizzazione, allora diventerebbe opportuno per lo stesso obiettivo cercare di guadagnare territorio andando apposta per esempio su Truth, Rumble o altri luoghi digitali che appartengono a una certa parte?
La mia risposta personale al momento è dettata da un comfort minimo: non condivido diverse scelte di come funziona Threads, come descritto anche nel post, (o anche lo stesso Substack) però sono luoghi luogo ancora frequentabili; Twitter, ad oggi, per me decisamente meno. (qui si potrebbe comunque fare un discorso di organizzazione collettiva per riuscire a gestirlo, magari)
Il secondo è che per me la risposta alla domanda finale passa anche per delle piattaforme strutturalmente diverse.
Se i social di oggi sono piazze private, forse ora c'è una speranza di luoghi digitali più aperti come Bluesky o il social web (fediverso, mastodon, etc).
Per anni non ci credevo, pensavo che roba come Mastodon non avesse alcuna speranza (e ho ancora i miei dubbi) però oggi penso che sia strategicamente utile spingere su strutture diverse (senza necessariamente ritirarsi totalmente dalle altre non alleate, come scrivevi sopra)